Quando i limiti sono i rimproveri
- Mara- Sati Capitanelli
- 28 mar 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 10 apr 2020
La prima volta che ho fatto la maestra non è che sapessi proprio come fare.
Con l'unica esperienza pratica che era il mio essere stata alunna, mi sono ritrovata davanti venti gioiosi e curiosi bambini.
E ho fatto la maestra.
Ho lavorato con grazia, con amore e dedizione, affaticata e turbata da quello che scoprivo ogni giorno di me e del mondo.
E quando non sapevo come affrontare una situazione, rimproveravo, riprendevo, alzavo la voce.
E stavo male.
Quando di sera tornavo a casa soffrivo, spesso la notte non riuscivo a prendere sonno, tutta la giornata mi passava davanti, sapevo che qualcosa non funzionava, ma non riuscivo a venirne a capo.
Come poteva il mio lavoro farmi così male?
Ho cercato le risposte a tante mie domande, pezzetto dopo pezzetto avevo costruito il puzzle pedagogico che mi chiamava.
Ora mi sentivo pronta, conoscevo tutta la teoria.
Non sapevo che, per paura di commettere gli stessi errori del passato, avrei fatto tanta fatica a dire no.
Ero terrorizzata di ritrovarmi faccia a faccia con quella rabbia che poi non sapevo riacchiappare.
Mi dicevo che i limiti esistevano in natura, che i bambini li incontravano quotidianamente: quando non arrivavano a prendere un oggetto, quando non riuscivano a svitare il tappo di una bottiglia, quando avrebbero voluto un gelato ma la gelateria era chiusa.
Tutto vero, ma tutto questo me lo dicevo per paura di dire no perchè mancava una parte: io.
L'adulto che guida, che protegge, che rassicura.
Il confine umano.
Ho impiegato molto tempo per riuscire a dire di no con serenità, e questo articolo è dedicato a tutti quelli che nascondono dietro all'alibi dei limiti un tornado di rabbia repressa, senso di rivalsa, paura di perdere il controllo della situazione, paura di non saper gestire la reazione emotiva del bambino.
Mi è stato detto che i rimproveri sono i limiti che noi diamo ai bambini.
I rimproveri sono rimproveri.
Ho cercato il significato sul dizionario:"Far conoscere a qualcuno il proprio biasimo per il male o l'errore che ha commesso, perlopiù affinchè egli si corregga o si ravveda. Riferito a se o agli altri, nutrire sentimenti anche non espressi, di riprovazione, di critica, di disapprovazione per qualcosa. Anche criticare, considerare negativamente talvolta con l'intento di colpevolizzare".
E pensare che in psicoterapia, o durante i colloqui con i genitori, o durante i corsi sulla genitorialità, si fa molta attenzione a creare un ambiente non giudicante. Ma i bambini no, loro li possiamo giudicare, criticare e far sentire in colpa perchè hanno bisogno di limiti. Siamo sicuri?
Quando riversiamo sul bambino la nostra rabbia, questo bambino non starà più ascoltando le parole che gli stiamo dicendo, ma le sue "antenne viscerali" saranno attentissime a captare i nostri segnali emotivi, e la sua attenzione si sposterà dal contenuto del messaggio alla relazione, penserà: "Sei arrabbiato con me, mi vuoi ancora bene?".
Il bambino che non percepisce la sicurezza della relazione con l'adulto è un bambino che ha paura. Se il bambino ha paura, non è libero di apprendere, non è libero di vivere, si sente amato a metà. Se il bambino percepisce di non essere amato svilupperà una scarsa stima di se: "se tu, l'adulto che mi sta curando, che mi tiene in vita, che mi fa da specchio, mi disapprovi, come posso io ritenermi giusto? Come posso amarmi se sei tu il primo a mettere dei limiti al tuo amore per me?"
Dare dei limiti non significa sgridare, biasimare, raggelare con lo sguardo. Significa essere in profonda connessione con i propri bisogni e con quelli dell'altro.
Bisogna essere consapevoli che la relazione tra adulto e bambino è asimmetrica e dalla parte dell'adulto pesa la responsabilità di questa relazione. Questo vuol dire che quando ti dico di no non ti incolpo di quello che sto provando perchè ho il dovere di farti arrivare sempre il messaggio del mio amore incondizionato nei tuoi confronti.
Il problema è proprio questo: la quasi totale incapacità di noi adulti a dare un nome a quello che proviamo, a riconoscere che lo sconforto, lo sdegno, l'amarezza, non ce li ha messi dentro qualcuno, no! li proviamo noi! Sono emozioni nostre e siamo noi che ce le dobbiamo gestire. Se chiediamo ai bambini di farsene carico, invertiamo i ruoli, chiediamo loro di accettare il modo in cui li trattiamo.
Invertiamo i ruoli perchè per loro è fisiologico e legato alla maturazione di alcune aree del cervello vivere le emozioni con tutto il corpo, come un'esplosione.
Noi si suppone essere adulti consapevoli, emotivamente competenti. Si suppone.
Partiamo da lì, partiamo da noi.
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